Il significato terapeutico degli archetipi viene da tempo immemore raccontato nei miti, nelle tragedie e nelle storie degli eroi, perciò raccontando storie noi diamo al paziente la possibilità di ri-vedere la sua storia e di re-immaginarla secondo quei significati archetipici universali che hanno formato la psiche stessa nella storia dell’uomo. Già raccontare la nostra stessa storia è una cura per l’anima, perché nel racconto noi rivediamo le immagini della nostra vita e, con il supporto dell’analista, possiamo accedere ai significati di quelle immagini con la coscienza, e ricollegarle al nostro vissuto personale. Quel vissuto che era rimasto dissociato, ad esempio sottoforma di un sintomo o di una sofferenza, e che ora improvvisamente prende la sua forma in una storia con un senso costruttivo. In questo modo possiamo far “parlare” l’anima e ascoltare i suoi bisogni, per cui il paziente ora diventa consapevole della condizione che lo ha portato al suo comportamento e al suo disagio. Questa attribuzione di significato viene fatta dal paziente stesso in base al suo vissuto emotivo ed affettivo, e non attraverso una diagnosi che segue un modello o una risposta che pretende di essere valida per tutti, proprio perché ogni persona è diversa dall’altra, e l’anima di ciascuna ha un bisogno e un destino diverso da quelli dell’altra.
Nella terapia archetipica, è possibile recuperare il significato delle immagini e dei bisogni di ciascun paziente attingendo, per esempio, alla mitologia, che rappresenta la psicologia dell’uomo antico dal quale proveniamo. Nelle storie della mitologia greca e romana, gli dèi e gli eroi avevano specifici ruoli, compiti e caratteristiche, e affrontavano prove complicate, che erano la trasposizione diretta delle caratteristiche umane, delle condizioni e delle prove che ognuno di noi doveva affrontare nella sua vita. Perciò, i miti rappresentano gli immaginari archetipici che hanno formato la nostra psiche.
La capacità mitopoietica, cioè di creare storie e miti, è una caratteristica innata dell’uomo che ci serve per capire il ruolo e il compito che abbiamo in ciascuna fase nella nostra vita. Per Freud, queste storie offrivano una chiara dimostrazione dei conflitti inconsci che ad esempio bambini e adolescenti devono attraversare per giungere alla piena maturità, pensiamo alla storia di Edipo su cui egli costruì la sua teoria dello sviluppo della sessualità. Jung studiò approfonditamente i miti e le religioni, li collegò all’alchimia e all’astrologia e capì che ciascun dio o eroe dell’antichità è un archetipo e funziona come simulacro delle funzioni mentali della psiche. Hillman propose un vero e proprio ritorno alla nostra “Grecia interiore” e al politeismo psichico, per cui uno dei compiti principali dello psicologo archetipico è quello di riconoscere nel racconto del paziente quali sono le divinità o le figure mitologiche che stanno agendo in lui in quel momento come immagini archetipiche.
Poiché nel mondo moderno l’uomo non è più in connessione con la divinità e con la natura, cioè con la propria vita inconscia, allora, dice Hillman, “gli dèi sono diventati le malattie”: significa che la psicopatologia, quella riportata nei manuali diagnostici, è il modo che l’anima trova oggi per poter esprimere un bisogno autonomo rimasto inespresso, e ammalarsi è il modo moderno per entrare in relazione con la propria psiche, che si esprime attraverso le funzioni degli “dèi” interiori. Raccontando al paziente la storia della divinità o dell’eroe che lo agisce, e amplificando il significato di questi miti, il paziente diventa consapevole del proprio vissuto psicologico, del compito evolutivo e delle prove che deve assolvere per poter compiere il proprio destino e diventare ciò che la sua anima chiede, cioè di attuare quel cambiamento evolutivo necessario per poter uscire dal suo stato di sofferenza e raggiungere la massima espressione di se stesso.